Meditazione 14 marzo 2020

ISAIA 6, 8-13; S. Paolo Apostolo agli Ebrei 4, 4-12; VANGELO Mc 6, 1b-5

La verità, per arrivare al cuore, ha bisogno dell’annuncio. Isaia iniziò l’attività profetica prima della morte del re Ozia che aveva regnato su Israele per 52 anni; in quel tempo nel popolo già si avvertiva la paura dell’invasione Assira da parte di Tiglat-Pileser III. La visione di Isaia avvenne alla morte di Ozia, tra il 740 ed il 736 a.C., che era considerato un re impuro perché, avendo commesso la terribile trasgressione di entrare nel tempio da laico, era morto di lebbra. Come il re era impuro così lo era anche il popolo che aveva sorpassato i limiti della grazia e stava andando incontro alla morte. Jhwh aveva preso al suo servizio il profeta prima dell’inizio degli sviluppi che sfociarono nella guerra siro-efraimita. La storia di un profeta comincia dalla sua chiamata, ma per ogni uomo è così; la nostra storia inizia col Battesimo ma ancor più dal giorno in cui abbiamo deciso in modo radicale di seguire il Vangelo.

È un giorno che si deve ricordare soprattutto quando ci sentiamo lontani dal Signore; ritornare a quel giorno è sempre un ritrovare forza per ripartire. L’immagine di Dio come di un re assiso sul trono seguirà Isaia per tutta la vita, per lui, infatti, Dio sarà sempre l’unico vero re. Il terribile sovrano dell’Assiria Tiglat-Pileser o il debole re Acaz di Giuda non sono veri re perché solo Dio ha in mano le sorti del mondo, solo lui può fare giustizia a tutti e prendersi cura dei deboli. Questo continuerà a gridarlo a tutti: “lasciate perdere gli altri re, non cercate alleanze altrove, perché è Dio l’unico nostro re”. Isaia resta abbagliato dalla maestà di Dio, ma non ce lo descrive e questa è la migliore testimonianza della veridicità del suo vissuto perché, lo dice tutta la Bibbia, Dio non si può vedere. Ci sono, però, tutta una serie di teofanie, le stesse che ritroviamo sul Sinai con Mosè: il fumo, la nube, il terremoto… La nube o il fumo indicano qualcosa che, se da una parte vela una certa realtà, dall’altra ci sottolinea qualcosa di molto importante; Gli stipiti che tremano sono invece simbolo di un Dio che irrompe sulla terra. Oltre a ciò ci sono i serafini (unico accenno in tutta la Bibbia) che costituiscono la corte celeste. Il loro nome significa “brucianti”, esseri incandescenti che bruciano al fuoco stesso di Dio. Di questo Dio Isaia percepisce due aspetti: la santità e la gloria. Dio è invocato dai serafini come il tre volte santo; il superlativo, nella lingua ebraica, si fa ripetendo per due volte l’aggettivo, qui è ripetuto tre volte, per indicare che non ci può essere nessuno più santo di Lui. Cosa vuol dire santo? Significa “separato” dalla realtà comune, intangibile, invisibile, trascendente. Quando ci sembra di averlo capito, afferrato, non abbiamo ancora capito nulla. Ma Isaia aggiunge a santo un altro termine “di Israele”. È molto bella questa espressione perché, se da un lato Dio è inconcepibile per l’uomo, dall’altro si dice che è vicinissimo al suo popolo, un alleato, un amico. Santo sì, ma il nostro santo. Nel cuore della messa, all’inizio della preghiera eucaristica, noi cantiamo il canto dei serafini per indicare che Dio si fa presente nel pane e nel vino. Ecco la realtà di Dio, trascendente e così vicino da farsi mangiare. L’altro aspetto è la gloria che indica la presenza concreta, attiva di Dio che riempie ogni ambito della vita. I nostri avi sapevano che cos’era la gloria di Dio perché lo ringraziavano o pregavano in ogni occasione, dal raccolto ad una nascita…Dio era presente nella loro vita in modo semplice, naturale spontaneo. Adesso per gloria si intende un omaggio dovuto, si va in chiesa (se va bene) a fare dei riti, non sappiamo vedere la sua gloria e così lo lasciamo fuori dalla chiesa, dalle case e dalla vita. Di fronte a questa apparizione di Dio il profeta esce con l’esclamazione “ohimè io sono perduto” o “io sono ammutolito”, “ridotto al silenzio come gli sconfitti, infatti si sente fuori dal coro celeste, indegno anche di cantare lodi al Signore. La prima reazione di Isaia non è la gioia ma il timore perché coglie subito l’abisso che c’è tra la grandezza di Dio e la sua fragilità, peccato ed inadeguatezza. “Io non sono degno di stare davanti ad un Dio così!”; questo è ciò che viene chiamato “impurità”. Isaia si sente solidale col suo popolo perché la fragilità che percepisce è anche di tutto il suo popolo ed è un peccato talmente radicato ed ostinato che non basta che Dio lo dimentichi e lo perdoni, deve purificarlo, bruciarlo. Ecco il senso di tutte le sventure a cui andrà incontro il popolo di Israele, sono terribili prove in cui il peccato di Israele viene bruciato. Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse. “Ecco questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato”. Se questo peccato deve essere bruciato, Isaia per primo ne fa esperienza. Il serafino si reca all’altare in cui brucia un fuoco che è ritenuto sacro perché viene direttamente da Dio, per gli Ebrei il fuoco nel tempio era acceso direttamente da Dio, e con i carboni presi direttamente da quel fuoco, brucia le labbra di Isaia come segno di purificazione. Perché è la bocca ad essere purificata? Perché il profeta è chiamato a parlare, annunciare, la bocca è lo strumento principale delle nostre relazioni, tra noi e con Dio; con la bocca si bacia, si parla… sono le relazioni frantumate a dover essere guarite e purificate. Il segno dei carboni è anche accompagnato da una parola e quando c’è un segno e una Parola che lo accompagna noi diciamo che c’è un sacramento che, in questo specifico caso, è quello della riconciliazione o confessione. Poi io udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. E io risposi: “Eccomi, manda me!”. Egli disse: “Va e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito”. Io dissi: “Fino a quando Signore?” egli rispose: “Finché non siano devastate le città, senza abitanti, le case senza uomini e la campagna resti deserta e desolata”. Il Signore scaccerà la gente e grande sarà l’abbandono nel paese. Ne rimarrà una decima parte, ma di nuovo sarà preda della distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo. Progenie santa sarà il suo ceppo. Il segno immediato della espiazione è la riconciliazione; Dio si fa più vicino tanto che Isaia può ascoltarne la voce, viene a far parte della corte celeste. Ora Isaia è pronto a fare il profeta. A differenza di altri racconti di vocazione, Dio non chiede esplicitamente a Isaia di andare in missione ma fa una provocazione: “chi manderò e chi andrà per noi?”. Isaia si fa avanti, si offre senza sapere ancora cosa è chiesto. C’è una disponibilità totale, senza condizioni che dovrebbe esserci di esempio. Isaia scopre, inoltre, che entrare a far parte della corte divina vuol dire essere spedito in missione. Il messaggio non è di salvezza ma di giudizio e ad Isaia viene dato il compito di svelare quell’abisso in cui precipita la libertà umana quando si allontana da Dio. I vers.9-10 sono molto importanti, anche se molto scomodi. Il profeta dovrà indurire, accecare, rendere ottusa la mente del popolo perché possa arrivare a vedere la terribile situazione in cui si è cacciato ma, paradossalmente, non verrà creduto. Una missione di indurimento del cuore è apparentemente fallita in partenza ma in che senso Isaia deve indurire il cuore dei suoi compatrioti? Sappiamo da Is.28,9-10 che Isaia presentava la verità con una tale semplicità che “gli uomini del mondo” del suo tempo lo avrebbero fatto insegnare all’asilo. Ma questa è la vera capacità di un predicatore, esporre in modo semplice la verità per cui nessuno possa dire di non aver capito. Isaia non causa nel popolo l’indurimento del cuore perché è già indurito, ma lo occasiona: ad esempio se uno torna a casa dall’ufficio, nervoso per qualcosa che è successo e, una volta a casa, gli viene detto di togliersi le scarpe perché sta sporcando il pavimento e questo si infuria, non è per la parola detta ma perché era già adirato e quella parola ha fatto scoppiare la miccia. L’ira che ho dentro viene a galla. È la stessa cosa che viene richiesta a Isaia, permettere al popolo di accorgersi del baratro, della furia che ha dentro. Chi è insensibile è trascinato più profondamente in tale condizione, proprio dalla chiamata alla conversione. La missione del profeta è sempre impopolare, la Parola suscita sempre contrasti, divisioni, turbamenti. La missione di Isaia è quella di fallire, di rimanere inascoltato ma sempre dire la verità, è come un genitore che deve parlare ma che dà fastidio e rimane inascoltato. La missione è sempre quella di annunciare, non di convertire, Dio solo converte. Qual è la verità che deve dire? Deve parlare di tutte le tragedie che stanno per avvenire a causa proprio dell’indurimento del cuore, della lontananza da Dio. L’inviato di Dio deve irrompere ed insediarsi come una spina nel fianco in una società superficiale incapace di vedere, ascoltare, capire, che ha imboccato una strada di morte scegliendo idoli falsi vivendo di ingiustizia e di violenza; il profeta è una coscienza che non sempre si vuole ascoltare, che non solleva dalla polvere ma dà consapevolezza della polvere che ci circonda in modo che la vergogna possa farci cambiare. Come, in termini storici, gli assalti della Assiria furono graduali, così anche il giudizio è graduale: città, uomini, campagne e poi l’intero paese sterminato anche chi, in un primo tempo, si era salvato. In mezzo al discorso di Dio si apre la domanda di Isaia: “Fino a quando?” Fino a quando dovrò portare avanti questa missione così infelice? Fino a quando questo popolo rimarrà insensibile ai tuoi richiami? Come nei primi versetti si parlava per tre volte di pienezza nel tempio, luogo abitato da Dio: i lembi del manto riempivano il tempio; la gloria di Dio che riempie la terra, il fumo che riempie il tempio infatti dove c’è Dio c’è questa pienezza, così questi ultimi versetti mettono a fuoco che, in mezzo al popolo che rifiuta Dio, c’è il vuoto: città rase al suolo, paese abbandonato, deserto. Dove manca Dio la pienezza si cambia in desolazione. Tra questi due estremi, pienezza e vuoto, c’è la purificazione e la chiamata in missione. La chiamata del profeta c’è perché Dio possa tornare ad abitare quel vuoto che il popolo si sta costruendo con le sue stesse mani. L’ultimo versetto vuole riportare speranza. Tutto è distrutto ma, come una pianta secolare che cade, rimane un ceppo. È la teologia del superstite. “Seme santo sarà il suo ceppo” è un modo per dire che l’insensibilità del popolo alla fine cesserà e la storia di amore tra Dio e il suo popolo potrà riprendere. “Porrò inimicizia tra il seme del serpente ed il seme della donna” (Gen.3,15). L’ultima parola è sempre quella di fiducia e di speranza e se anche la parola del profeta è demolitrice, nasconde in sé un seme santo. “Se Dio mi ha dotato di questo senso dell’avventura è perché attraverso quella vuole che arrivi a Lui.